La ricerca archivistica e le testimonianze scritte ed orali hanno consentito di organizzare un quadro che ricorda e rende omaggio ai sette caduti: Jacchia, Benassi, Giovanelli, Paglieri, Palmieri, Rodrigues Pereira e Tavernari, alle partigiane scrittrici Viganò e Zangrandi, che hanno raccontato in opere di pregio letterario le loro esperienze e ad un professore, Evangelista Valli, che seppe tenere viva la coscienza della libertà e della dignità della persona in una scuola fortemente condizionata dal regime fascista.
Gli studenti caduti
Jacchia Mario

Mario Jacchia nacque a Bologna il 2 gennaio 1896 da Eugenio, avvocato affiliato alla Massoneria, espulso da Trieste, ancora austro-ungarica, per la sua attività irredentista, e da Elisabetta Carpi. La famiglia aveva origini ebraiche.
Frequentò il ginnasio del “Galvani” tra il 1907 e il 1909.
Volontario nella Grande Guerra nel corpo degli Alpini, si guadagnò per i suoi comportamenti eroici, due medaglie d’argento, una di bronzo e una croce di ferro.
Tornato a Bologna e ripresi gli studi di giurisprudenza entrò nel movimento politico "Sempre pronti per la patria e per il re" movimento nazionalista paramilitare, protagonista di un grave fatto di sangue. Credette nel fascismo della prima ora, tanto che nel ’20 si iscrisse al fascio di combattimento fondato da Leandro Arpinati.
Il distacco avvenne a seguito delle aggressioni e delle gravi intimidazioni subite dal padre e dal fratello Luigi, antifascista fin dall’inizio. Mario si dimette dal PNF e passa all’opposizione militante. “L'Avvenire d'Italia”, giornale clerico-fascista, appoggia questi interventi squadristi. Mario, allora, si fa ricevere dal suo direttore, Carlo Enrico Bolognesi, e lo schiaffeggia con decisione per cui i fascisti distruggono lo studio di avvocato gestito da Mario e da altri avvocati antifascisti. Mario arriva sul posto e prende a revolverate i fascisti che rispondono al fuoco e lo bastonano danneggiandogli un occhio. Al termine dello scontro Mario viene arrestato per aver difeso la sua proprietà che viene incendiata dai fascisti stessi.
I problemi col regime fascista si fanno sempre più gravi. Nel '27 non gli viene consegnato il "certificato di buona condotta politica", essendo ormai schedato fra gli antifascisti pericolosi: Il suo lavoro da avvocato non può proseguire. Nel '30 Mario non ottiene il brevetto di pilota a causa dei precedenti politici pur avendo superato brillantemente tutti gli esami. Nel '39, a seguito delle leggi razziali, in quanto ebreo è radiato dall'albo degli avvocati.
All'inizio del 1943 entra nel Partito d'Azione con Massenzio Masia, insieme al quale costituisce un’ organizzazione antifascista, chiamata Fronte per la pace e la libertà, che riunisce persone di diverse idee politiche purché antifasciste. L' 8 settembre del 1943 Mario è nella capitale e prende parte agli scontri contro i tedeschi. Diventa il rappresentante del Partito d'Azione nel CLN di Bologna.
Nei primi mesi del '44 passa alla lotta militare col nome di battaglia di “Rossini” ed ha l'incarico di ispettore delle formazioni di Giustizia e Libertà in Emilia e, da ultimo, il comando militare per il nord della regione.
Viene preso dai fascisti a Parma, durante una riunione, ma riesce a far fuggire i compagni e a distruggere gran parte dei documenti. Viene consegnato ai tedeschi e sembra che venga torturato. Il suo corpo non è mai stato ritrovato. Gli fu conferita la medaglia d’oro alla memoria.
Sulla facciata della casa di famiglia di via D’Azeglio 58 è murata una lapide che lo ricorda.
Benassi Giuliano

Nacque a Carpi (Modena) il 23 marzo 1924, ultimo di sette figli. Il padre, Tommaso, era stato eletto nel "Listone nazionale" nel 1924, ma all'indomani del delitto Matteotti si era dimesso da deputato.
Dopo la morte del padre la famiglia si era trasferita a Bologna, dove Giuliano aveva frequentato il liceo “Galvani”, diplomandosi nel 1943. La madre era morta quando lui era in II liceo.
Subito dopo l'armistizio, il giovane aveva preso a collaborare con la Resistenza e quando, nel marzo del 1944, fu chiamato alle armi dalla RSI, raggiunse i partigiani di una formazione di "Giustizia e Libertà". Dopo aver partecipato a vari combattimenti contro i tedeschi, allorché il comandante della sua banda fu ferito, il ragazzo decise di accompagnarlo e Milano e qui fu sorpreso dalla polizia fascista.
Giuliano Benassi, rinchiuso a San Vittore, seppe resistere agli interrogatori e alle torture, tanto che fu rilasciato. Decise, quindi, di trasferirsi a Padova, dove entrò in contatto con il centro cospirativo che il professor Egidio Meneghetti aveva costituito all'interno dell'Ateneo. Incaricato di consegnare agli alleati (che l'attendevano su una nave al largo di Chioggia), un plico contenente importanti informazioni militari, lo studente si mise in mare con una piccola imbarcazione, ma non riuscì a portare a termine la missione. Tornato a terra, il ragazzo cadde di nuovo nelle mani dei nazifascisti. Portato a Verona e rinchiuso in quel carcere, ancora una volta Giuliano Benassi seppe, malgrado le torture, mantenere il segreto. Ma non fu rilasciato. Deportato il 20 dicembre 1944 nel campo di concentramento di Bolzano, dopo un mese fu trasferito in Sassonia e poi nel lager di Oelsen, dove morì il 27 aprile 1945, quando l'Italia era stata ormai, praticamente, liberata.
Dal campo di Bolzano scrisse un’ultima lettera al fratello Alfredo, piena di speranza:
Bolzano, 26 dicembre 1944
Dopo tanti mesi di silenzio ti scrivo da Bolzano, ove son giunto alcuni giorni fa. Ieri era Natale. Il secondo Natale che passo lontano da voi, fratelli cari, da quel tempio di ricordi e di affetti dolcissimi che è la nostra vecchia villa di Quartirolo. Giornata un po’ melanconica, ma tuttavia tanto dolce e tanto cara egualmente. Come sempre la fede mi è stata grande conforto; ho potuto comunicarmi e sento che certo Gesù non può non aver accolto la mia preghiera, la nostra preghiera, di riunirci un giorno non lontano, tutti e per sempre. E quel giorno la cara Anna ucciderà il vitello grasso (ma forse basterà appena per me) e preparerà monti di lasagne e diluvi di lambrusco, e Graziella si arrabbierà perché mangerò il mio pane fra una portata e l’altra, e Silvana mi passerà di nascosto il piatto che non sarà riuscita a vuotare, e la Nonnetta vorrà ch’io parli più forte... e più adagio.
Basta la sola dolcezza di questo pensiero a farmi dimenticare tutto quanto io ho passato e a darmi una assoluta fiducia nell’avvenire.
Ora che ho sfogato un po’ di quella dolcezza da troppo tempo inespressa, passiamo ad altro. Non ti preoccupare di me, Alfredo, perché sono assolutamente convinto di cavarmela.
Spero che questa mia arriverà in tempo per tranquillizzarvi sul mio conto: non muovetevi di casa e non tentar nulla per me, mi raccomando.
Ti abbraccio, Alfredo, e con te Anna, Graziella, Silvana, Nonna, Zia, Giorgio, Ezio, Lina, Roberto, tutti qui forte sul mio cuore
Giuliano
Gli è stata conferita la medaglia d’argento alla memoria.
A Bologna, nel 2005, gli hanno dedicato la piazzetta antistante l'ex chiesa di S. Lucia, oggi Aula magna dell'Università di Bologna. Alla memoria del giovane sono dedicate, dal 2006, anche le "Giornate Studenti e Libertà", che si svolgono in occasione della ricorrenza della Liberazione.
L’avv. Francesco Berti Arnoaldi, che di Giuliano fu compagno di scuola e amico, nonché, come lui, partigiano, ha scritto come estremo omaggio il volume
Viaggio con l'amico. Morte e vita di Giuliano Benassi.
Giovanelli Emanuele

Emanuele Giovanelli nacque a Trecasali, in provincia di Parma, il 27 maggio 1926 da Vittorio, conduttore capo delle Ferrovie dello Stato, e da Linda Manfredi, maestra elementare, il cui padre aveva combattuto a Bezzecca con Garibaldi.
Crebbe nella quiete della campagna parmense, all’interno di una famiglia molto serena, presto allietata dall’arrivo di altri due figli maschi.
Nel 1934 Emanuele si trasferì a Bologna con la famiglia, in via Oriani, 30. Studente del “Galvani”, anticipò l’esame di stato alla II liceale e pertanto risulta diplomato nel 1944.
Dopo l’8 settembre 1943, appena diciassettenne, aveva svolto attività di collegamento tra le bande partigiane soprattutto in Romagna e, forse, la decisione di anticipare il diploma, concludendo degnamente un percorso di studi fatto con successo e passione, fu presa per darsi completamente alla lotta partigiana.
La famiglia non era sfollata a causa dell’infermità della nonna. Alle due di notte del 15 giugno del 1944, i tedeschi piombarono in casa e prelevarono Emanuele e il padre. Emanuele, diciottenne da pochi giorni, risultava renitente alla leva e forse era segnalato per la sua attività precedente.
Trasferito al campo di concentramento e smistamento di Fossoli per essere deportato in Germania, Emanuele venne ucciso il 12 luglio 1944. L’episodio, unico nel suo genere in quel luogo, vide il sacrificio di 67 italiani. La tesi più verosimile è che si trattasse di una rappresaglia tedesca per i sette loro soldati uccisi a Genova un mese prima. Settanta, infatti, furono i prigionieri scelti, ma uno si nascose con successo e due riuscirono a scappare. Le vittime vennero uccise nel recinto del tiro a segno, ai bordi di una fossa già scavata da ebrei del campo, in tre turni, secondo l’ordine alfabetico. I primi furono messi in ginocchio e ammazzati con un colpo di pistola alla nuca; il secondo gruppo tentò di ribellarsi e venne massacrato dalla guardia russa a sventagliate di mitra. I due che riuscirono a fuggire appartenevano a questo. Per il terzo gruppo si seguì il macabro rito del primo. Emanuele Giovanelli si trovava nel secondo gruppo.
Sepolto alla Certosa, presente nella grande lapide di Palazzo d’Accursio, è ricordato al Galvani ogni anno col conferimento di un premio alla sua memoria.
Il “Galvani” conserva il ricordo di una commovente lettera della madre.
Il mio figliuolo Emanuele nacque nella generosa terra parmense nel 1926. Ero maestra in un paese della bassa pianura, lontana da mio marito, capotreno a Ferrara. Per compiere meglio il mio dovere materno lasciai la mia casa di Parma e mi trasferii dove insegnavo.
Rivivo con nostalgia quegli anni densi di lavoro e colmi di speranze. Lele crebbe sano e buono nella quiete e nella pace della campagna, aspettando come festa il ritorno del papà, nei brevi riposi. Nacquero a S. Quirico di Trecasali anche gli altri miei figli Luciano e Ugo.
Nel 1934 ebbi il trasferimento nelle scuole di S. Lazzaro di Savena (Farneto), perché mio marito era stato mandato qui a Bologna.
Lasciai ogni cosa nella fiducia che ciò fosse per il meglio. Lele intanto cresceva e si faceva ognora più espansivo ed affettuoso; studiava volentieri, leggeva molto e godeva nel vivere all’aperto e girare con suo padre. Nella memoria è l’immagine del suo fresco viso, illuminato dagli scuri occhi dolci: quando mi guardava, io scordavo tutto: pensieri, stanchezza, guai. Dopo la sua perdita, fra i piccoli della mia scuola io sempre ricercavo il sorriso di Lele e m’incantavo nel mirare la luce dei loro occhi innocenti. Amava irradiare, fare del bene a tutti: paziente coi fratelli, affettuoso con la nonna, di animo aperto e sincero con gli amici. La sua adolescenza piena di grazia, esuberante di salute, che non sfociò nella giovinezza, fu come un soave mattino di primavera: luminoso di sole, gonfio di speranze.
Aveva un delicato sentimento religioso: spesso, avanti di andare a scuola, serviva alle saette la Messa nel convento dei frati di via Guinizelli, preparava il suo presepe con entusiasmo, saliva rapido, da solo, a piedi sul colle della Guardia, dal nostro viale Oriani. Quando, nel silenzio della notte, studiava, desiderava di avermi vicina e, delle volte, diceva: “Come si sta bene al mondo!”. Sentiva di spandere gioia e di ricevere affetto da chi lo avvicinava.
Nel 943, dopo l’8 settembre, Lele fece parte delle prime formazioni partigiane (così mi riferirono gli amici): svolse un’azione di propaganda, di collegamento in Romagna. Frequentando la seconda liceale, si preparò a sostenere l’esame di maturità. Temeva nella primavera del 1944, nel compiere i diciott’ anni, di essere chiamato sotto le armi al servizio dei tedeschi: quei tedeschi che il nonno materno aveva combattuto giovinetto a Bezzecca, restando ferito. Trema il cuore nel pensare agli ultimi mesi della sua breve vita. Quando ottenne la licenza di maturità, in maggio, io e mio marito fummo felici: scordammo le angustie e le privazioni della guerra.
Per Lele e per la nonna inferma a letto non eravamo sfollati, ignari che, ben presto, la bufera si sarebbe addensata sul nostro capo, squassando ed incalzando la nostra vita.
Nella notte del 15 giugno alle due i tedeschi piombarono in casa e portarono via Lele e mio marito. A distanza di anni, quell’ora tragica, quasi sempre mi trova in piedi e mi fa stare col fiato sospeso. Precipitarono gli eventi: dopo gli interrogatori di S. Chiara, ai primi di luglio, fu mandato al concentramento di Carpi e il 12 fu tra i Martiri, forse il più giovane di Fossoli.
Nella casa triste, silente, Egli vive: io Lo vedo ovunque, risento la sua voce e quando son sola, nei muti colloqui, Egli mi consola, con la fede che unica m’incammina verso di Lui.
Paglieri Andrea Luigi

Andrea Paglieri nacque a Verona il 17 novembre 1918 da Giuseppe e Maria Casella.
Frequentò il “Galvani dal 1932 al 1937, quando conseguì la maturità classica. Si laureò in Giurisprudenza e stava conseguendo una seconda laurea in Scienze politiche.
Tenente di cavalleria in servizio permanente effettivo nei lancieri di Novara, partecipò alla guerra eroicamente, meritando una medaglia d’argento e due croci al valore militare.
Al momento dell’armistizio si portò a Fossano, dove la famiglia si era trasferita dal Veneto e dove entrò nella Resistenza col nome di “Secondo dottore”. Comandò un battaglione della 20° Brigata “Giustizia e Libertà”. Venne catturato dai nazifascisti a Fossano il 1° agosto. Torturato orrendamente non parlò. I suoi carnefici lo mostrarono con la bocca squarciata per le vie della città e lo fecero passare davanti alla sua casa dove gli riuscì di vedere sua madre, senza essere visto. Proprio per questo, prima di essere fucilato e nonostante le manette, volle scrivere alla madre il seguente biglietto:
Cara mamma, [sto scrivendo male perché ho le manette] ma ti assicuro che non soffro e che non ho mai sofferto. Sono lieto di averti visto questa mattina in giardino e che voi non mi abbiate visto: così non avete provato dolore. Grazie di quanto avete fatto per me e scusa di tutti i dispiaceri che ho dato.
Vi stringo al cuore
Andrea vostro
Venne fucilato a Benevagienna dai nazisti il 9 agosto 1944.
Per il suo sacrificio gli fu riconosciuta la medaglia d’oro alla memoria.
La casa in cui nacque a Verona lo onora con una lapide che gli riconosce il valore e lo propone come esempio ai giovani.
Palmieri Giovanni

Giovanni Palmieri nacque a Bologna il 16 dicembre 1921 da una famiglia di professionisti. Il nonno materno, Giulio Cesare Pietra fu un noto pittore e restauratore. Il nonno paterno, Giovanni Battista, fu avvocato e studioso di storia del diritto romano, a cui si deve la scoperta e l’ edizione della prima opera nota del grande Irnerio. Dal padre Giangiuseppe, medico insigne e pioniere della radiologia italiana, trasse l’amore per la Medicina, alla quale volle dedicarsi, dopo una brillante carriera di studi secondari interamente percorsa nel Liceo Ginnasio “Luigi Galvani”, frequentato fra gli anni scolastici 1932/1933 e 1937/1938. I suoi insegnanti lo ricordavano come uno dei migliori allievi, non solo per l’ acutezza e la profondità dell’ingegno, ma anche per la gentilezza dell’animo che lo rendeva particolarmente amato dai compagni.
L’inizio degli studi universitari, nella facoltà Medica-Chirurgica di Bologna, fu presto interrotto da una parentesi bellica, poi venne un congedo, che lo lasciò libero fino all’ 8 settembre 1943, quando le tragiche condizioni create dall’armistizio posero anche a lui, come ad altri giovani, il crudele dilemma, fra servire, attraverso un governo fantasma, l’ ex alleato invasore della nostra patria, o darsi alla montagna. Senza alcuna esitazione scelse la montagna. Egli, che aveva frequentato con assiduità e con profitto le corsie delle cliniche e dei laboratori di ricerca, fu medico partigiano col nome di battaglia di “Gianni”, in una delle più combattive e gloriose Brigate Garibaldine, la trentaseiesima “Bianconcini”.
Fu nel settembre 1944, quando le truppe tedesche, incalzate dagli alleati stavano abbandonando la Linea Gotica, contendendo tuttavia ai partigiani il terreno palmo a palmo. Il battaglione di Guerrino, di cui Gianni era il medico, si era asserragliato in Ca’ di Guzzo, un casolare disperso fra i calanchi, su di un contrafforte dell’ alto Sillaro, a qualche chilometro in linea d’ aria da Belvedere e da Piancaldoli. L’insidia venne di notte. Una compagnia di S.S., guidata da informatori fascisti, si accostò al casolare accerchiandolo. Si aperse da ambo le parti la sparatoria, e in Ca’ Guzzo ben presto incominciò il lavoro pietoso del medico. Un mortaio, dal colle di Belvedere, affiancò l’azione dei tedeschi, buttando all’ aria il tetto del casolare, mentre la pioggia scrosciava a dirotto.
Dopo un’ eroica resistenza di tutta una notte, il comando partigiano decise la sortita, e tale ordine fu trasmesso anche al medico. Ma questi non volle saperne, e da chi gli prospettava la sicura morte che altrimenti lo attendeva, fieramente rispose: “ Qualunque sia il mio destino, il mio posto è qui tra i feriti”.La sortita dei partigiani avvenne in modo spettacolare, non senza perdite gravi da ambo le parti. Quando i tedeschi, sul far dell’alba, vista la bandiera bianca, che i contadini ed alcuni rifugiati in Cà di Guzzo avevano esposto ad una finestra, entrarono nel casolare, trovarono Gianni che stava bendando un giovanissimo ferito accecato da una pallottola. A Gianni fu offerta una possibilità di salvarsi poiché fu inviato quale ambasciatore ad un altro casolare non distante, per patteggiare la resa con un gruppo di partigiani: se egli non fosse ritornato, tale era stata la minaccia, tutti i feriti, rimasti come ostaggi, sarebbero stati fucilati. E Gianni tornò. Ma i tedeschi fecero ugualmente una strage di partigiani e non partigiani, ammassandoli in una fossa comune.
Gianni fu tenuto in vita, perché medico, per curare i feriti tedeschi, che frattanto erano stati trasferiti in un casolare più basso, a Le Piane. Ma il mattino del terzo giorno, il 30 settembre 1944, quando l’ opera del medico parve finita, egli fu freddato con una palla in fronte, prima che i suoi carnefici in ritirata abbandonassero la posizione. Il suo corpo fu abbandonato in un calanco e per vario tempo rimase disperso, finché non fu per caso rinvenuto e ricomposto dall’affettuosa pietà di alcuni amici e colleghi del padre, allora ignaro della sorte del figlio.
Alla memoria di Gianni Palmieri fu decretata la medaglia d’oro al valore militare.
Pereira Romeo Rodrigues

Nacque a Napoli il 29 novembre 1918 da Romeo e da Elena Masi.
Frequentò il ginnasio del “Galvani” dal 1932 al 1934.
Ex-allievo della Scuola Militare Nunziatella di Napoli, nel 1938 entrò all'Accademia militare di fanteria e cavalleria di Modena, dalla quale uscì nel 1940 con il grado di sottotenente dei carabinieri. Il 15 settembre dello stesso anno, si sposò con Marcella Duce.
Nel 1941 fu nominato comandante di plotone nel Gruppo Squadroni territoriali di Roma. Poco dopo gli fu affidato il comando della 660ª Sezione Carabinieri motorizzata in Africa Settentrionale. Rimase sul fronte per pochi mesi, dal 15 novembre del 1941 al 25 gennaio del 1942, partecipando a numerose azioni in prima linea e guadagnando sul campo una medaglia di bronzo al valor militare. Si ammalò e dovette tornare in Italia, dove assunse il comando della Tenenza di Roma-Ostia e poi a quella di Roma-Appia.
L'8 settembre del 1943 si oppose all'ingresso dei tedeschi nella capitale, catturando alcuni prigionieri. Il 7 ottobre fu arrestato dai tedeschi e deportato in Germania, ma durante il viaggio, a Pordenone, riuscì a fuggire. Rientrato a Roma, costituì una banda di Carabinieri che agiva nell'ambito della formazione partigiana comandata dal generale Filippo Caruso. Il 10 dicembre fu catturato dai tedeschi. Condotto prima nel carcere di via Tasso e poi al III braccio di Regina Coeli, fu più volte torturato. Per farlo parlare, fu arrestata anche la moglie Marcella.
Fu fucilato il 24 marzo alle Fosse Ardeatine.
Tavernari Sergio
Nacque a Forlì il 4 aprile 1921 da Guido ed Elena Ulisse.
Frequento il “Galvani” dal 1933 al 1940, quando conseguì il diploma.
Laureando in Giurisprudenza, per combattere nella Seconda guerra mondiale, Tavernari, nel dicembre del 1941, si arruolò volontario nella Coorte autonoma universitaria di Bologna della milizia fascista e frequentò un corso per allievi ufficiali.
L'8 settembre 1943, per opporsi ai tedeschi, decise di unirsi alla banda partigiana "Poet" operante a Bologna. Dopo aver svolto funzioni di collegamento con altre formazioni partigiane dell'Emilia, lo studente decideva di passare nell'Italia liberata. Raggiunta Pescara e poi Bari, il giovane si mise a disposizione del Comando alleato che, dopo un breve periodo di addestramento, decise di mandarlo a Milano. Sbarcato da un MAS sulle coste dell'Italia settentrionale, Tavernari riuscì a raggiungere il capoluogo lombardo con tutta l'attrezzatura che gli era stata affidata e a trovare una sistemazione in zona Magenta. Stava trasmettendo con il capo telegrafista Gastone Piccinini quando arrivarono i tedeschi, su delazione di un coinquilino. I due giovani, distrutti ricetrasmittenti e codici, impegnarono i tedeschi sino a che, esaurite le munizioni, piuttosto che arrendersi, si lanciarono nel vuoto dal tetto della casa. Era il 20 maggio del 1944.
A Milano, Tavernari è ricordato da una lapide sulla casa di via Pier Capponi 2, dove si è compiuto il suo sacrificio.
Bologna, dove aveva studiato, gli ha intitolato una via.
Gli è stata conferita la medaglia d'oro al valor militare alla memoria.
Scrittrici partigiane: Renata Viganò
Renata Viganò nacque a Bologna il 17 giugno 1900 da Eugenio e Amelia Brassi. La condizione agiata della famiglia le fece vivere una serena infanzia borghese.
Dirà di sé, ricostruendo la propria vita: “Io non sono nata dal popolo. Non ho avuto perciò il grande insegnamento di un’infanzia dura, di genitori premuti da lavori faticosi, da privazioni quotidiane. Ma la mia estrazione borghese non impedì che fossi portata a preferire le persone del popolo alla vellutata, stagnante, bigotta simulazione della classe a cui appartenevo.”
Renata fu una precocissima poetessa e la sua prima raccolta Ginestra in fiore, stampata a cura della famiglia, le fece conquistare le cronache del giornale locale, Il Resto del Carlino, che il 22 gennaio del 1913 le dedicò un breve articolo, intitolato “La poetessa dodicenne”, in occasione della festa che l’istituto scolastico privato, frequentato fino ad allora, organizzò per lei. Proprio in quell’anno Renata, che abitava con la famiglia in via Cartolerie 17, passò al “Galvani” in III ginnasio A. Ebbe tempo di concludere il ginnasio inferiore, di frequentare il ginnasio superiore e la prima liceo, sempre con profitto lusinghiero. Al termine della V ginnasio il voto in italiano fu 10. Nel 1915 aveva dato alle stampe una seconda raccolta poetica: Piccole fiamme. Purtroppo nel 1917 il fallimento della ditta di famiglia sottrasse a Renata l’agio di cui aveva goduto e la costrinse ad andare a lavorare. Aveva sognato di fare il medico e si fece prima inserviente e poi infermiera.
“Piantai con un taglio netto ogni rapporto con i ranghi borghesi e andai a fare prima l’inserviente poi l’infermiera negli ospedali. Era il lavoro che mi piaceva perché avevo tanto desiderato gli studi in medicina, e anche se allora umiliato, mal retribuito e faticoso, non me ne sono mai pentita. Così ebbi il mio posto nella classe operaia”
Nel frattempo il fascismo arrivò al potere e si trasformò in regime. Dopo la morte dei genitori e della vecchia “tata”, Renata visse con distacco la nuova situazione politica fino a che non incontrò, attraverso un’amica, gli oppositori comunisti al regime e colui che diventerà il compagno della sua vita, Antonio Meluschi.
“Lui pettinò la matassa un po’ arruffata dei miei pensieri, e incominciai così la mia vera “scuola di partito”.
Dopo che Meluschi, già dal 9 settembre 1943, si era unito ai partigiani, Renata, a Bologna, cominciò ad aiutare gli sbandati dell’esercito per poi partecipare, a sua volta, alla Resistenza, prima in Romagna e poi nelle valli di Comacchio, tenendo con sé il figlio Agostino, detto “Bu”, di soli sette anni.
La Resistenza fu “la cosa più importante nelle azioni della vita” della Viganò che da essa trasse la materia del suo capolavoro L’Agnese va a morire. Scritto nel 1949, le valse il premio Viareggio e un successo che dura nel tempo.
“Il personaggio dell’Agnese non è uno solo… L’Agnese è la sintesi, la rappresentazione di tutte le donne che sono partite da una loro semplice chiusa vita di lavoro duro… per trovarsi nella folla che ha costruito la strada della libertà.”
Renata si ispirò alla Resistenza per altre due opere: Donne nella Resistenza, scritto nel 1955 e Matrimonio in brigata, scritto nel 1976.
La Viganò aveva avuto il proprio esordio narrativo nel 1933 con Il lume spento. Dopo L’Agnese, la sua attenzione per le donne del popolo le fece scrivere Mondine nel 1952 e, dieci anni dopo, un bel romanzo Una storia di ragazze, che segue le vicende diverse e dolorose di ragazze di differente estrazione sociale ma egualmente “sopraffatte” dal mondo maschile.
Renata morì a Bologna il 23 aprile del 1976, senza riuscire a vedere la trasposizione cinematografica della sua Agnese nel film di Giuliano Montaldo.
Bologna le ha dedicato un giardino con un piccolo monumento nel quartiere Savena. Il comune di S. Lazzaro le ha intitolato una strada come il comune di Pontecchio Marconi e la città di Ferrara. Una scuola elementare di Casalecchio di Reno porta il suo nome. Il Liceo “Galvani” le ha intitolato la sua sala insegnanti.
[a cura di Meris Gaspari]
Scrittrici partigiane: Giovanna Zangrandi
Il centenario della nascita di Giovanni Zangrandi (1910-2010) è stato l’occasione perché il Liceo-Ginnasio “Galvani” di Bologna, in cui essa fu studentessa dal 1923 al 1929, colmasse un “vuoto di memoria”, tornasse a parlare di lei e le intitolasse la sua futura aula magna. Giovanna allora non si chiamava Giovanna Zangrandi ma Alma Bevilacqua e tale rimase fino al trasferimento volontario in Cadore, che segnò per lei l’inizio di un’ altra vita.
Alma Bevilacqua nacque a Galliera il 13 giugno 1910 da Gaetano, veterinario, e da Maria Ebe Tardini. Il padre proveniva da una numerosissima famiglia del luogo, di condizione abbiente, ma colpita da varie forme di nevrosi e schizofrenia. I suoi undici fratelli soffrirono di forme anche gravissime di disturbi mentali ed egli stesso morì suicida nel settembre del 1923 quando Alma aveva appena tredici anni. Il timore di essere toccata dalla pesante dote di dolore della famiglia paterna certo favorì la fuga di Alma in Cadore e, per tutta la vita, la tormentò.

La madre era una donna forte, coraggiosa, una casalinga colta che non perdeva occasione per leggere, decisa a far studiare la figlia, sia pure con sacrifico, poiché a lei la continuazione degli studi era stata negata, secondo le consuetudini dell’epoca che privilegiavano i maschi rispetto alle femmine.
Alma frequenta la scuola elementare a San Vincenzo di Galliera fino alla quinta, quando viene ritirata per motivi di salute nel corso dell’anno scolastico. Ma la ragione vera probabilmente è che i genitori, nella speranza di veder migliorare la salute del padre, si trasferiscono a Desenzano sul lago di Garda, dove Alma frequenta con ottimi risultati il ginnasio statale “Bagatta” per due anni. Nel 1923, poco dopo il suicidio del padre, Alma va a vivere con la madre a Bologna dove viene iscritta in terza ginnasio al “Galvani”. Di loro si prende cura, in particolare, uno degli zii paterni. Alma detesta lo zio, detesta la città, detesta la scuola che frequenta, insegnanti e compagni compresi. A Bologna Alma ottiene la licenza liceale nel 1929.

Consegue la laurea in chimica nel 1933 con 108 su 110. L’anno dopo supera l’esame di abilitazione alla professione di chimico e consegue il diploma in farmacia. Rimane come assistente volontaria a Geologia ma nel 1937, quando muore la madre, decide di trasferirsi in Cadore, dove ha trovato un posto di insegnante di scienze a Cortina nell’istituto privato “Antonelli”. Alma ha conosciuto il Cadore, fino ad allora, durante le vacanze estive e gli è apparso non solo un luogo di incomparabile bellezza naturalistica ma anche una terra in antitesi con quella della sua nascita: una terra dove la gente è più autentica, più sana, più forte e dove lei può mettere alla prova la sua audacia, il suo corpo e il suo spirito.
Poi me ne andai lontano da quelle larve superstiti, fantasmi, tombe e loculi di marmo verde, via, tra gente viva, semplice, forte, senza gretti egoismi di clan, senza caste.
Alma sarà maestra di sci, arrampicatrice, guida, in questo aiutata da un corpo piccolo, tozzo e muscoloso, che non le piace esteticamente ma che le consente di sfidare se stessa e la natura.
La passione per la scrittura la porta a pubblicare su giornali locali fascisti articoli di carattere scientifico. Alma è cresciuta in una scuola e in una università fasciste e, nonostante le riserve critiche della madre nei confronti del regime, non ha sviluppato apparentemente nessuna forma dichiarata di ostilità, ma solo fastidio per certe imposizioni o per la retorica roboante e la rumorosità di certe manifestazioni. Ma con l’8 settembre 1943 matura in lei la decisione di unirsi alle formazioni partigiane e, approfittando del vantaggio che la sua attività di insegnante a Cortina e a Pieve le dà, cioè quello di poter passare per lavoro (e quindi senza destare sospetti) il confine del Reich, che era stato posto a Dogana, diventa staffetta, assumendo il nome di Anna, che è quello con cui continuerà ad essere chiamata in Cadore.
Nel clima di fervore e speranza del dopoguerra, dirigerà un giornale locale “Val Boite” in cui non esita ad attaccare quanti cercano di far dimenticare il loro passato fascista per opportunismo, creandosi molti nemici. Nel 1946, decisa a non riprendere mai più il mestiere di insegnante, Anna costruirà, impegnandosi con tutta la sua forza fisica e mentale, un rifugio nella sella di Pradonego sotto il monte Antelao. Lo gestirà fino al 1961 quando lo cederà al CAI, non essendo riuscita a guadagnarci da vivere.
Ha cominciato però a pubblicare con successo racconti e romanzi, poiché è la scrittura la vera passione della sua vita. Sono cominciati anche i mutamenti di nome. Alma diventa Alda, poi sarà Anna e alfine Giovanna. Il cognome letterario diventerà Zangrandi. Nel 1951 esce una raccolta Leggende delle Dolomiti che testimonia il profondo legame di Anna con la sua nuova terra. Nel 1954 esce presso Mondadori, nella collana “La Medusa degli Italiani” il romanzo I Brusaz, che ha come protagonista una straordinaria figura femminile, Sabina. L’opera le vale il premio Deledda, prestigioso nell’Italia di allora. Anna decide di prendere la patente e di acquistare un’automobile, una 600 Fiat, l’icona del boom economico italiano. Nel 1957 uscirà, sempre presso Mondadori, un altro romanzo, Orsola nelle stagioni, con un’altra donna protagonista. La notorietà le ha consentito collaborazioni con quotidiani e settimanali nazionali. Anna si è trasferita da Cortina a Borca di Cadore dove si costruisce una casetta al limitare del bosco e dove avrà come inseparabile compagnia il cane Attila.
Nel 1959 viene pubblicato da Ceschina (la Mondadori aveva tenuto il manoscritto a lungo ma non aveva preso una decisione) Il campo rosso. L’estate del 1946, ove l’autrice racconta l’esperienza della costruzione del rifugio. L’opera le vale il Premio Bagutta che suona come una rivincita nei confronti della Mondadori. Del resto, i rapporti di Anna con il mondo dei letterati e delle case editrici non è buono.
Non molto tempo dopo compaiono i primi segni del male che segneranno dolorosamente gli ultimi anni della sua vita, togliendole anche la possibilità di scrivere. Decide allora di affidare ad un’opera in forma di diario l’esperienza esaltante che aveva vissuto vent’anni prima come staffetta partigiana. Nascono I giorni veri, pubblicati ancora una volta da Mondadori, forse il capolavoro della letteratura resistenziale al femminile. E’ il 1963. Nel 1966 esce Anni con Attila, una raccolta di sette straordinari racconti, di cui La sahariana, storia di una giacca che accompagna tutte le “stagioni” di Anna, si presenta come una vera e propria sceneggiatura della sua vita. Negli anni Settanta, escono una guida di Borca, Il diario di Chiara, ambientato nel 1848 trentino, Racconti partigiani e no e Gente alla Palua, una raccolta di racconti tra cui Il 47° cromosoma, preziosissimo per la ricostruzione di alcuni momenti della sua vita emiliana. L’idea di scrivere una grande storia della sua famiglia paterna, quella da cui era scappata nel 1937, era stata coltivata da Anna a più riprese ma ormai la difficoltà di scrivere aveva preso il sopravvento.
Occorre non dimenticare l’impegno di Anna nelle istituzioni politiche locali, continuata nonostante la malattia, e caratterizzata, come ricordano quelli che l’hanno conosciuta, da una spiccata attenzione alla vita concreta della gente.
Gli ultimi anni sono tristissimi. La malattia le toglie l’autosufficienza. Il carattere le ha sempre impedito di chiedere aiuto agli altri. Molti del resto sono morti, altri si sono dimenticati di lei. L’unico che la assiste e si preoccupa di assicurarle da vivere è l’amico Arturo Fornasier, il giovane partigiano “Volpe” de “I giorni veri”, conosciuto nel 1944 in mezzo alle sventagliate di mitra di un rastrellamento nazista, a cui entrambi erano scampati. Fornasier è stato il suo consigliere finanziario, l’amico che l’ha assistita fino all’ultimo rimanendo presente anche alla sua morte. Dopo è stato il custode vigile e attento del suo archivio, che oggi, riordinato e studiato da Myriam Trevisan, rimane depositato nella casa dei Fornasier a Pieve di Cadore.
Anna è morta il 20 gennaio del 1988 ed è sepolta, per sua volontà, accanto a suo padre e sua madre nel cimitero di san Vincenzo di Galliera nella tomba di famiglia dei Bevilacqua, ove riposano anche i nonni e gli zii.

[a cura di Meris Gaspari]
Un professore antifascista: Evangelista Valli

Evangelista Valli nacque a Faenza il 20 luglio 1894 da Bernardo e Teresa Lanzoni.
Fu alunno del liceo faentino “Evangelista Torricelli”e poi studente di filosofia all’Istituto di Studi Superiori di Firenze.
Combattente nella guerra del 1915-18, si guadagnò la medaglia d’argento al valore militare per l’azione al monte Vodice dei giorni 16-17 maggio 1917, nella quale, al comando di una compagnia, e rimanendo ferito, fece duecento prigionieri e catturò tre mitragliatrici.
Fu professore di Filosofia e storia dal 1925 al 1937 nel liceo “Torricelli” di Faenza, ove aveva studiato. Nel 1938 ottenne il trasferimento al “Galvani” di Bologna.
Romagnolo generoso e di sentimenti democratici, fu decisamente antifascista. Anche in classe spesso oltrepassò i limiti segnati dal “regime” alla libertà dei docenti. Subì di conseguenza aggressioni e intimidazioni.
Trovò conforto nello studio, pubblicando la biografia e le opere dello zio monsignor Francesco Lanzoni, agiografo di spirito liberale e storico delle chiese primitive nonché esegeta delle prime leggende cristiane.
Appena finita la guerra, nel 1945 fu dal Comitato di Liberazione Nazionale, di cui aveva fatto parte durante la lotta di resistenza quale triumviro per la scuola media, nominato Provveditore agli Studi per Bologna: ufficio che tenne con singolare saggezza in un momento non facile.
Assolto il difficile compito, pur potendo rimanere provveditore, preferì tornare alla sua cattedra di storia e filosofia al liceo ”Luigi Galvani”, accolto da colleghi e alunni con dimostrazioni di alta stima e rinnovata simpatia.
Tra le mansioni del periodo post-bellico, va ricordata quella che assunse come stremo sostenitore della laicità della scuola di stato, nell’Associazione per la difesa della Scuola Nazionale.
Attendeva a un ampio panorama della letteratura classicheggiante nella Romagna dell’Ottocento quando improvvisa la morte lo colse a 54 anni, il 12 settembre 1948.
Lo hanno immortalato nelle pagine dei loro libri i suoi studenti Francesco Leonetti Conoscenza per errore, Einaudi e Francesco Berti Arnoaldi in Viaggio con l’amico, Sellerio.
Il Liceo “Galvani” gli ha voluto rendere omaggio il 13 aprile 2011, nel corso di una giornata intitolata “Credere nell’Italia nuova. Donne e uomini del Galvani nella Resistenza” invitando i suoi alunni dell’anno scolastico 1939-40, presenti nella foto che segue con lui, a ricordarlo.
Dice l’ing Franchi Scarselli:
Sono stato allievo del Galvani nella Sezione D dalla prima Ginnasio fino alla quinta, e poi al Liceo nella Sezione C dall’anno scolastico 1937/38 a quello 1939/1940, in pratica proprio fino all’entrata in guerra dell’Italia.
Al Liceo come insegnante di Storia e Filosofia avemmo nel primo anno Galvano della Volpe, noto filosofo che negli anni Quaranta aderì al marxismo, ma che dal PC fu poi considerato un eretico perché il suo era un marxismo non dogmatico e quindi non ortodosso. Ci lasciò perché fu chiamato ad occupare la cattedra di filosofia dell’Università di Messina. Ma di Galvano Della Volpe confesso di avere un ricordo piuttosto sbiadito, tutto il contrario di quello che ho per il suo successore, Evangelista Valli.
Valli era una di quelle persone che non si dimenticano, con una personalità molto forte, ed era un vero maestro, nel senso che non soltanto era un ottimo insegnante, ma allargava l’orizzonte delle conoscenze dei suoi allievi al di là dell’apprendimento delle sue materie. In altre parole ci aiutava a capire come era il mondo al di fuori di quello nel quale vivevamo.
Chi è nato e vissuto dopo la guerra difficilmente si rende conto di cosa era il Fascismo, che forse delle dittature allora imperanti (Fascismo, appunto, Nazismo, Franchismo e Stalinismo) non era la peggiore, ma sicuramente con una propaganda incessante e con una selezione accurata di quanto ci veniva propinato dai giornali e dalla radio riusciva a condizionare i pensieri soprattutto di noi giovani in un modo oggi impensabile.
E non dimentichiamo che vivevamo in quelli che De Felice definì giustamente “gli anni del consenso”. Consenso del quale non sto qui a ricordare le cause, ma che c’era, eccome.
Ma torniamo a Valli, che per quanto mi ricordo del fascismo e delle sue presunte dottrine, forse molti di voi hanno sentito parlare di “mistica” fascista, non parlava male apertamente, semplicemente non ne parlava affatto, e a quei tempi il silenzio era da interpretare come un forte dissenso, mentre tante volte ricordo che ci ha intrattenuti sui regimi politici esistenti negli altri paesi, in particolare su quelli liberali della Francia e della Gran Bretagna, mentre criticava più o meno apertamente il nazismo, nostro alleato, critica che in qualche modo potevamo collegare anche al fatto che i tedeschi erano stati i nemici contro i quali aveva duramente combattuto durante la prima Guerra Mondiale. Guerra della quale ci parlava spesso, ricordando fra l’altro che come ufficiale di fanteria aveva comandato un reparto di “punizione”, cosi almeno mi pare si chiamasse, e ci diceva che quando andava all’assalto era opportuno che stesse non davanti ma dietro, un pò per meglio incitare i suoi uomini, ma anche perché c’era il dubbio che qualcuno gli sparasse nella schiena…
Non riesco invece a ricordare un suo commento sulla guerra civile di Spagna, che come sapete era scoppiata nel 1936 e fini nel 1939, ed alla quale l’Italia partecipò attivamente a fianco delle truppe franchiste, mentre sicuramente espresse le sue riserve sulle leggi razziali, che fra l’altro per quanto riguarda me personalmente furono l’inizio dei dubbi nei confronti del Regime. Semplicemente non riuscivo a capirne le ragioni, se non dovute ad una servile acquiescenza nei confronti dell’alleato nazista. E non mi sembra che quando interrogava Valli spargesse il terrore nella scolaresca, come ho sentito dire, anche se certamente non era tenero con chi voleva fare il furbo. Mi ricordo di un nostro compagno che alla domanda di parlare di Hobbes tergiversava e cercava di dirottare il discorso, e al quale urlò “Hobbes” cosi forte che i vetri delle finestre tremarono.
E ricordo le sue risate, che sicuramente non si riferivano a stupide barzellette, ma a fatti esterni che meritavano una simile critica. E anche questo era un insegnamento.
E qui mi fermo perché degli anni bui della guerra, prima lontana e poi addirittura in casa, della resistenza e poi finalmente della liberazione, parleranno coloro che ne furono parte attiva.. Mi limito a ricordare i compagni che non tornarono, in particolare Parini, morto in Russia, e Cosimini morto a Montelungo.
In sintesi, Valli era un uomo che emanava da tutto il suo essere il suo spirito romagnolo, sincero e spontaneo, e che come professore non soltanto era bravo, ma ci preparava a studiare con metodo universitario, a ragionare con la nostra testa e, come detto, ci insegnava a capire il mondo. Non è poco e gliene sono ancora grato.
E ringrazio il Galvani per avermi data questa possibilità di proclamarlo.

[a cura di Meris Gaspari]
[le prime tre immagini sono state messe a disposizione dalla figlia, prof.ssa Francesca Valli]